“A Silvia” di Leopardi: testo, parafrasi e analisi della poesia (2024)

A Silvia è tra i più celebri componimenti poetici di Giacomo Leopardi: conosciuta a fin dai primi anni di scuola, è uno dei testi del grande poeta di Recanati che permette di accedere al suo universo esistenziale e di comprendere le ragioni di molte sue scelte formali. Per questo motivo, proponiamo un commento che ne faciliti la comprensione.

La nostra analisi del testo ricorda quali sono i temi e le caratteristiche formali di A Silvia di Giacomo Leopardi, ed è anche un utile strumento che gli studenti possono utilizzare per arrivare preparati agli esami di maturità.

Come nasce A Silvia: un’introduzione

Composta a Recanati tra il 19 e il 20 Aprile del 1828 e comparsa per la prima volta nell’edizione dei Canti curata dall’editore fiorentino Piatti, pubblicata nel 1831, A Silvia segna il ritorno alla poesia di Giacomo Leopardi, dopo l’impegno profuso nella scrittura delle Operette morali. La poesia inaugura una nuova stagione poetica, quella dei Grandi Idilli dove è messo a tema il cosiddetto pessimismo cosmico: l’assetto definitivo della poetica di Leopardi dove la natura, matrigna, è vista come la scaturigine ultima della sofferenza umana e la ragione, capace di instillare nell’uomo una consapevolezza carica di dignità circa il proprio destino, è più impegnata nel recupero memoriale di figure appartenenti a un passato remoto (la poetica della ricordanza).
Così, con A Silvia, Leopardi rievoca una figura femminile della sua giovinezza, storicamente identificabile con Teresa Fattorini, coetanea del poeta e figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta prematuramente di tisi, dieci anni prima.
Silvia diventa il simbolo della disillusione propria dell’età adulta, ma anche uno specchio di Leopardi stesso che, costretto a una permanenza forzosa a Recanati per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, dopo aver soggiornato in varie località italiane, vede in Silvia la morte in vita.

La poesia, un canto funebre che può essere inteso come “un’elegia sulla fine del modo poetico” deriva il suo assetto metrico e stilistico dalla condizione esistenziale del poeta: dal momento che la libertà gli è negata nella vita reale, Leopardi sceglie di viverla nella scrittura, dissolvendo i legami e le forme chiuse proprie della poesia tradizionale. La canzone libera (vera e propria invenzione formale di Leopardi che segna l’innovazione stilistica maggiore rispetto ai canti precedenti), metro di A Silvia, infatti, alterna liberamente endecasillabi e settenari, che si susseguono senza uno schema fisso e riconoscibile. Lo stesso discorso vale per lo schema rimico, libero come quello metrico: le rime sono comunque utilizzate per sottolineare l’amarezza e lo sconforto del poeta, per questo sono poste nei passaggi più evocativi e descrittivi della poesia e riescono a creare precisi effetti fonici e stilistici.
Rispetto al ciclo di canti precedenti è possibile notare una netta semplificazione della sintassi: periodi brevi con pochi connettivi, subordinate e procedimenti paratattici rari.

Delle sei strofe che compongono l’idillio, la prima, la più breve, ha funzione introduttiva; la seconda e la terza, più lunghe, sono parallele; la quarta ha funzione di collegamento tra la prima e la seconda parte del componimento; la quinta e l’ultima, sono, di nuovo, parallele. Vediamone i contenuti nel dettaglio.

A Silvia: parafrasi

Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita mortale in cui la bellezza risplendeva ancora nei tuoi occhi ridenti e timidi e tu, serena e pensierosa, ti avvicinavi al confine della giovinezza?

Le stanze tranquille e tutte le vie attorno risuonavano al tuo canto, quando sedevi, presa dai lavori femminili, contenta del futuro misterioso che immaginavi. Era il maggio profumato: e tu eri solita passare così ogni giornata.

Io, abbandonando ogni tanto i miei studi amati e le pagine su cui mi affaticavo, dove spendevo la parte migliore della mia giovinezza, mi affacciavo ad ascoltare dai balconi della casa paterna il suono della tua voce e il ritmo delle tue mani che tessevano.
Guardavo il cielo sereno, le vie dorate e gli orti, e da una parte il mare lontano e dall’altra il monte.
Non esistono parole umane per poter dire cosa provavo.

Che dolci pensieri, che speranze, che emozioni, mia cara Silvia! Come ci apparivano allora la vita umana e il destino!
Quando mi ricordo di tanta speranza mi colpisce un dolore acerbo e sconsolato e torno a soffrire della mia sventura.
O natura, natura, perché non adempi alle tue promesse? Perché inganni tanto le tue creature?

Tu, prima che l’inverno inaridisse i campi, morivi, sfinita e vinta da una malattia misteriosa. E non vedevi il fiore dei tuoi anni, né ti addolciva il cuore la dolce lode dei capelli neri o degli sguardi innamorati e schivi, né con te le amiche, nei giorni di festa, ragionavano d’amore.

Sarebbe morta nel giro di poco anche la mia dolce speranza: il destino anche a me ha negato la giovinezza. Ah, speranza, come sei passata, cara compagna della mia gioventù!
Questo è davvero quel mondo? Questi i piaceri, gli amori, le imprese, gli eventi di cui tanto abbiamo fantasticato? Questa la sorte del genere umano?
All’apparire della verità tu, misera, sei crollata: e con la mano mostravi da lontano la fredda morte e una tomba spoglia.

A Silvia: testo e analisi, strofa per strofa

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?

v. 1 = Il nome “Silvia” - storicamente identificabile con Teresa Fattorini, ma in realtà un’immagine ideale per alludere a tutte le giovinezze - è tratto dall’Aminta di Torquato Tasso (autore tra i più cari a Leopardi), come è possibile evincere da un passo, del giugno 1828, dello Zibaldone dove il poeta descrive un’adolescente con un’aura divina, assimilata a un fiore purissimo e, poi, alla speranza propria della gioventù. In tal modo diventa chiaro anche il tema di tutto il canto, la perdita delle speranze giovanili, di cui si ha, ora piena consapevolezza, e la malinconia legata a tale perdita.
v. 2 = “vita mortale” l’idillio si apre sull’onda del ricordo malinconico come indicano chiaramente non solo il verbo del verso precedente (che allude anche alla poetica della ricordanza) ma anche l’uso del vocativo con il nome proprio di persona e il pronome determinativo - “quel” - che mostra la vaghezza della dimensione del ricordo. Sempre lo Zibaldone (un passo del dicembre 1828) chiarisce l’importanza della rimembranza come principale sentimento poetico: questo non può essere identificato con il presente e va sempre collocato nell’indefinito, nella lontananza, nel vago.
v. 4 = “ridenti e fuggitivi” i due termini, quasi in endiadi (figura retorica che consente di disgiungere due termini di cui l’uno è complemento dell’altro), contribuiscono a una caratterizzazione psicologica precisa della figura di Silvia e rimandano tanto all’attesa, propria della gioventù, della bellezza della vita, quanto alla percezione, percepita in modo oscuro e sfumato, della sofferenza che attende la vita stessa, per questo, nello stesso sguardo, concorrono speranza e timore.

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

vv. 6-7 = Ci troviamo di fronte a una costruzione dove la virgola (dopo la parola “stanze”) impone una pausa che ha la funzione di separare in modo netto lo spazio interno ed esterno tesa a riprodurre foneticamente, la propagazione ad eco del canto della fanciulla.
v. 12 = A Leopardi basta una pennellata per dipingere un paesaggio: “il maggio odoroso” non è solo la stagione della primavera e del fiorire della vita ma anche una metafora chiara della giovinezza e della speranza che sono i temi dell’idillio.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

vv. 14-15 = Nella distinzione tra “studi leggiadri” e le “sudate carte” può essere, probabilmente, individuata la distinzione tra le due grandi passioni intellettuali che hanno contraddistinto l’adolescenza di Leopardi, la poesia e gli studi di erudizione; i due termini, con i rispettivi aggettivi sono posti in chiasmo (“studi leggiadri” - “sudate carte” = sostantivo+aggettivo – aggettivo+sostantivo), figura retorica che prevede lo scambio di posizione di due termini contigui; nella seconda espressione (“sudate carte”) è ravvisabile un chiaro esempio di metonimia.
v. 18 = “veroni” è un aulicismo (uso di un termine aulico, poetico, in luogo di uno appartenente al linguaggio corrente), sta per “balconi”.
vv. 20-21 = Un altro esempio di metonimia dove la causa (“la man veloce”) sostituisce l’effetto (il suono prodotto dal telaio durante la tessitura).
vv. 25-26 = Giacomo Leopardi non sta esprimendo un effettivo sentimento d’amore quanto, piuttosto, la condivisione e la compartecipazione a una stessa situazione esistenziale, ovvero alla giovinezza, alla sua serenità e alle sue speranze, non ancora turbate dalle inquietudini della vita.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

v. 28 = il possessivo “mia” indica la comunanza d’affetto, di moti dell’animo ma anche la dimensione della memoria e della ricordanza perché Silvia è nei ricordi del poeta, al momento del componimento dell’idillio.
vv. 31-38 = il termine “speme” (speranza) indica chiaramente il vero tema della poesia: la caduta delle illusioni della giovinezza e l’invettiva, nei versi successivi, contro la Natura, ritenuta colpevole di ciò.

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

v. 40 = “chiuso morbo”: una malattia oscura e mortale che, però, va identificata con la tisi di cui era morta Teresa Fattorini.
v. 41 = “tenerella”: esprime la delicatezza di un singolo essere indifeso e, allo stesso tempo, la fragilità di tutta la razza umana.

Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? Questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

v. 50 = la frase è tutta tesa a raccontare la triste sorte de la “speranza mia dolce”, soggetto della frase, che si sovrappone completamente alla figura di Silvia, in un finale estremamente amaro. È la speranza stessa, nel finale, a indicare che il destino comune a tutta l’umanità è la tomba.
v. 60 = “L’apparir del vero” è la caduta delle illusioni nutrite in gioventù, la fine della speranza che la sofferenza dell’età adulta e la morte, hanno progressivamente distrutto. Gli ultimi versi sono anche una chiara allusione alla posizione ideologica matura di Giacomo Leopardi (il pessimismo cosmico), ormai consapevole che il dolore del vero è inevitabile, che la Natura è una fonte inesauribile di delusioni e che la sofferenza dell’uomo è senza tempo.

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